venerdì 16 novembre 2007

[Tonolec è un duo argentino composto da Charo Bogarin e Diego Perez. Il loro lavoro musicale è solo agli inizi, ma già costituisce un'esperienza imprescindibile quando si guarda alla nuova musica argentina che lavora a partire dalle tradizioni locali. Charo e Diego, entrambi compositori, hanno trovato il loro "diamanate grezzo" nella musica degli indios Toba. Diego suona il computer, Charo le sue corde vocali e quella (unica) del violino toba nvique.]

MUSICA CON RADICI

intervista realizzata l'8 maggio 2007

Dario: Come vi siete conosciuti, e come è nato Tonolec?

Diego: Charo è nata nella provincia di Formosa, io a Resistencia in Chaco. L’ho sentita cantare a una festa, mi è piaciuta la sua voce, m’è rimasta come registrata, così l’ho contattata e già dal primo giorno in cui ci siamo visti abbiamo iniziato a cantare insieme… Facevamo pop elettronico, pensa un po’! Tutto è stato molto rapido: avevamo solo 5 canzoni e già davamo concerti. Poi siamo venuti a sapere di un concorso di MTV e ne abbiamo mandata una: abbiamo vinto. Il premio era un viaggio in Spagna per suonare. Questo viaggio per noi è stato anche un movimento interno, perché ascoltando quello che si faceva nel resto del mondo ci siamo resi conto che la nostra musica in realtà non era molto nostra, non aveva un’identità propria, era come troppo globalizzata. Siamo tornati in Argentina in piena crisi del 2001, manifestazioni, saccheggi, morti. E ci siamo sentiti “in crisi” anche noi, e abbiamo iniziato a cercare. Siamo inciampati in un’antologia che aveva una canzone degli indios Toba che ci ha colpito, così abbiamo preso contatto con le comunità toba del Chaco e le cose pian piano sono cresciute. Abbiamo continuato investigando finché non ci siamo resi conto che tutto il suono che cercavamo era lì, e abbiamo iniziato a preparare il disco sull’idea di una fusione toba-elettronica.

Charo: Tonolec nasce da una crisi che abbiamo avuto noi, sia artistica che personale, che è capitata in contemporanea con la crisi del 2001. Una crisi cosmica, una crisi mondiale: tutta una crisi, su tutti i piani! [ride] Con Diego cercavamo una forma di trovare la nostra propria voce, volevamo che la gente quando ci ascoltava intendesse da dove proveniamo. Per questo è stato necessario guardarci intorno e trovare le nostre radici. Quello che cercavamo era una musica con radici: se fossimo stati di Buenos Aires saremmo potuti arrivare al tango (già esiste un tango elettronico); essendo di provincia, saremmo potuti arrivare a zambas, chacareras o altri ritmi popolari argentini; però siamo andati ancora oltre e ci siamo incontrati con la musica aborigena dei Toba. I Toba sono l’unica comunità aborigena argentina ad avere istituito un coro antropologico, ed è fantastico perché ascoltandoli ci siamo resi conto che avevamo un diamante grezzo a due passi da casa. Era quello che cercavamo e non ce ne eravamo mai resi conto. Quando abbiamo deciso di lavorare sulla fusione toba-elettronica ci siamo anche resi conto che non potevamo solo ascoltare una registrazione e remixarla. Anche se già vivevamo a Buenos Aires abbiamo deciso di tornare lì, prendere contatto con il coro, e ci siamo integrati alle loro ronde di canto e di ballo. Questo è stato il nostro ingresso nel mondo toba, nella loro musica ma in qualche modo anche nella loro forma di vita.

Diego: Nonostante questo, abbiamo al contempo cercato di rimanere vicini a quello che noi siamo, alla nostra formazione. Di qui siamo arrivati alla fusione: non abbiamo voluto fare quello che fanno loro, ci sentiamo parte dello stesso paesaggio del Chaco dove sono loro, ma siamo anche altro. Siamo tecnologia, siamo anche altre musiche che abbiamo ascoltato e fatto negli anni. E tutto questo abbiamo cercato di farlo emergere nel sound che caratterizza Tonolec. Cercavamo una fusione integrale.

Charo: Sì, musicalmente questo abbiamo cercato realizzarlo facendo in modo che gli elementi etnici suonassero elettronici, e quelli elettronici suonassero organici. Questo, per esempio, si può raggiungere facendo in modo che un embiké (violino di latta a una sola corda) suoni loopado, con un’attitudine che loro non gli danno. E facendo che il modo di comporre al computer di Diego suoni in qualche modo con una tessitura organica.

Diego: Raggiungere questo ci è costato abbastanza, non è stato facile.

Dario: Lo immagino. Spesso le fusioni tra musica organica e elettronica rimangono superficiale, nel vostro caso però si nota una profondità che non tutti riescono a raggiungere.

Diego: Ce l’hanno detto in molti. Spesso dopo i concerti si avvicinano persone che ci dicono di non aver mai amato l’elettronica, ma che la nostra musica li ha colpiti positivamente. Per me questo succede perché non prendiamo l’elettronica come uno scopo, come qualcosa che deve imporsi, ma come un mezzo per far arrivare più lontano la nostra immaginazione.

Dario: Un’impressione che ho avuto è che la musica toba si presti abbastanza ad essere rimaneggiata elettronicamente. Ha una sonorità ipnotica.

Charo: Sì, non credo che sia solo la toba a prestarsi a questo tipo di trattamento ma in generale molta la musica etnica. Perché ci sono coincidenze tra i due tipi di musica: paradossalmente, l’etnico e l’elettronico sono vicini nella struttura. Per esempio, la circolarità è propria della musica toba come del cuore dell’elettronica, il loop. Questo elemento in comune ci ha aiutato a rendere la fusione più profonda. Non passa solo nella musica toba, ma anche con i mantra e con una gran quantità di musica tradizionale.

Diego: La ripetizione, la circolarità, sono piene di significato nella musica toba e hanno a che vedere con il religioso. Questo è interessante, perché permette di riempire l’elettronica di un contenuto che solitamente non ha… L’elettronica, in realtà, è un tipo di musica molto carente di contenuto: è soprattutto un’architettura, uno strumento che ha bisogno di uno scopo.

Charo: L’elettronica è un vaso, nient’altro. E un vaso ha un senso solo se viene riempito di qualcosa.

[…]

Dario: Guardando agli ultimi decenni di musica popolare, e soprattutto di mercato musicale, mi vengono in mente due poli con i quali in qualche modo Tonolec deve aver dovuto fare i conti. Uno è la cosiddetta musica “new age”, che per quanto sia poco più di un cartello commerciale esprime un bisogno di fusione tra radici ancestrali e modernità che è anche al cuore della vostra musica. L’altro è la musica folk argentina, non solo Atahualpa Yupanqui o Mercedes Sosa ma tutta l’industria che ha fatto della musica tradizionale quello che qui viene chiamato semplicemente “il folklore”.

Diego: Ci interessa tutto quello che ha a che fare con la terra. Non ci interessiamo tanto del marketing, delle collocazioni discografiche. Quello che ci interessa di più è essere coerenti con quello che sentiamo e ci interessa tutto quello che ha a che fare con il folklore.

Charo: Non stiamo su nessuna sponda, a dire il vero. Non possiamo stare dentro quello che oggi si intende quando si dice il “folklore argentino” (anche se ovviamente siamo parte del folklore argentino, nel senso più corretto del termine), e ancor meno su quella del new age. Francamente è la prima volta che ci sentiamo mettere in mezzo il new age!

Diego: A noi interessa la musica, in fondo dove ci mette il mercato non ci riguarda così tanto… Però quello che è successo con Tonolec è che hanno iniziato a invitarci in festival di nuove tendenze del folklore e in festival di nuove tendenze dell’elettronica, e questo è bello.

Charo: Ora, se la gente vuole sapere dove trovare il nostro disco nei negozi ci può trovare nel settore “world music”!

Dario: Bè, in “elettronica” non so ma io vi ho trovato in “folklore”… non ho guardato il reparto “new age”, ma attenti che potreste finirci! [risa] A parte gli scherzi, il fatto è che nel tipo di poetica dei vostri testi, nell’immagine delle comunità indigene come vicine alla natura, come alternative ecosostenibili agli obbrobri della contemporaneità, in un qualche modo vi avvicinate a certe posizioni “new age” – detto tra molte virgolette…

Diego: Sì, ma il fatto è che il new age è stato fatto perché la gente tornata dall’ufficio si sdrai sul divano e metta su un disco per rilassarsi… però sì, capisco quello che vuoi dire: la nostra ricerca ci ha portato a rivalutare la natura, la comunicazione semplice tra le persone, i tempi dilatati al di fuori dell’urbanizzazione. A rivalutare la musica: perché spesso questa è vissuta con leggerezza, della serie accendo la radio e ascolto quello che mi capita, ma in realtà ha anche fare con il religioso, con i ritmi della natura, della vita umana. E tutto questo lo abbiamo rivalutato attraverso Tonolec.

Charo: Bene: sul fronte del new age l’abbiamo scampata! Ora vediamo come ce la caviamo su quello del folklore… [risa]

Dario: Vediamo: per esempio Indio Toba è una canzone ben militante. Racconta la realtà difficile in cui si trovano a vivere le comunità indigene oggi. E non lo fa rappresentandole al di fuori del mondo moderno, ma evidenziando il modo contraddittorio con cui si rapportano alla modernità. La domanda è se vi sentite in qualche modo parte della tradizione militante della musica latinoamericana.

Charo: Tonolec è ancora un germoglio, ma la speranza è che un domani, quando diventerà un albero, possa far parte di questa tradizione folklorica. Perché se tu vuoi essere parte di un luogo, nel nostro caso Argentina, devi essere parte del folklore. La musica indigena è folklore: ma non è considerata tale oggi, perché al folklore si sono attribuiti altri significati. Sarebbe bello se si riuscisse a voltare pagina in questo, e a vedere la musica indigena come parte di un panorama “argentino”, senza discontinuità.

Diego: Il problema è che perché questo succeda l’intera società argentina dovrebbe cambiare dall’interno. Però qualcosa sta succedendo, tanto che ci hanno invitati al festival di Cosquín.

Dario: E questo è molto significativo perché Cosquín, oltre ad essere meraviglioso per chi ama il folklore argentino, è anche il palco più tradizionalista del paese. Volendo fare un paragone per il pubblico italiano, Cosquín sta al folklore come Sanremo alla canzone italiana.

Charo: Sì, da questo punto di vista siamo nati sotto una buona stella. Ascoltando le esperienze di altri artisti del nuovo folklore, noi siamo gli unici a non esser stati traumatizzati da una ricezione fredda, nel migliore dei casi. Siamo andati a Cosquín, e nonostante una certa incertezza nostra e da parte degli organizzatori, quando abbiamo finito di suonare sono stati solo applausi. Noi stessi non ce l’aspettavamo.

Diego: Credo fosse la prima volta che sul palco di Cosquín venisse posato un computer portatile!

Dario: A proposito, visto che parli di “artisti del nuovo folklore”, secondo voi si può parlare di un movimento del nuovo folklore argentino?

Diego: Sì. C’è un nuovo sguardo verso le radici. C’è una specie di revisionismo folklorico, forse derivato proprio dalla crisi, che ci ha spinto a guardarci dentro. L’Argentina è un paese che sta ancora cercando la sua identità, siamo una mescolanza di migranti e di aborigeni. Abbiamo sempre voluto assomigliare alla Francia, alla Spagna, all’Italia, all’Inghilterra… Sarmiento, che è uno dei nostri eroi nazionali, uccideva gli indios e voleva far emigrare qui più inglesi possibili affinché si riproducessero. C’è stato davvero di tutto, e solo ora si sta cercando di trovare una vera identità che non sia cercare di assomigliare a qualcosa che non siamo. La verità è che c’è molta gente che sta cercando di trovare una via argentina all’identità, artisti di tutti i tipi: artisti plastici, figurativi, letterati. Vari ci hanno scritto per dirci che gli piace quello che facciamo e che ci vedono coincidenze con quello che fanno loro. È bello che succeda questo in Argentina, un paese profondamente esterofilo, e prima o poi doveva succedere che si iniziasse a guardare davvero quello che ci sta più vicino.

Dario: E riguardo alla scena di questo nuovo movimento, è tutto Buenos Aires?

Charo: In buona parte sì, perché Buenos Aires è la vetrina imprescindibile del paese. Se un musicista vuole vivere della sua musica, deve venire qui per venderla. Sono pochissimi quelli che riescono a vivere della musica rimanendo in provincia, tra quelli del nuovo folklore mi viene in mente Mariana Carrizo, a Salta, e Raly Barrionuevo a Santiago del Estero. Ma sono casi che si contano quasi sulle dita di una mano, perché se vuoi apparire devi metterti in vetrina. È la triste realtà.

lunedì 12 novembre 2007

[Perché hopfrog? L’inaugurazione di questo spazio è l’imperdibile occasione per ripescare dal vecchio baule una bella lettura. Buona lettura!]

Edgar Allan Poe
HOP FROG



Non ho conosciuto mai nessuno che più del re fosse portato alla beffa. Pareva non vivesse che per scherzare. Il modo più sicuro per ottenere i suoi favori era di narrare una storia buffa e raccontarla bene. Così avvenne che i suoi sette ministri si distinguevano tutti per i loro talenti di buffone, e non erano da meno del re tanto nell'adiposa corpulenza del fisico quanto nell'attitudine impareggiabile agli scherzi. Se la gente ingrassi con le buffonate, e se nel grasso sia qualcosa che predispone alla buffonata, non sono mai riuscito a determinare; sta di fatto però che un buffone magro è "rara avis in terris". Delle finezze, di questi "spettri" dello spirito, come lui le chiamava, il re si dava poca cura. Aveva una speciale ammirazione per la "larghezza" della facezia e per amore di questa digeriva spesso anche la "lunghezza”. Le delicatezze lo annoiavano. Avrebbe preferito il Gargantua di Rabelais allo Zadig di Voltaire; d'altra parte, meglio degli scherzi a parole, si addicevano al suo gusto le beffe in azione. Al tempo di questo racconto i buffoni di professione non erano del tutto passati di moda alle corti. Varia fra le grandi potenze del continente tenevano ancora di questi "buffoni" che portavano livrea di toppe e il berretto a sonagli e dovevano essere sempre pronti con le loro spiritosaggini a pagarsi le briciole largite dalla tavola reale. Il nostro re, naturalmente, aveva anche lui il suo buffone. Gli occorreva invero qualche cosa di un po’ pazzesco che lo compensasse, se non altro, della pesante saggezza dei sette savi che gli facevano da ministri, per non parlare poi della propria. Il suo buffone però non era soltanto un buffone; agli occhi del re il suo valore era triplicato dal fatto che era anche nano e zoppo. Allora a corte i nani erano comuni quanto i buffoni, e molti monarchi non avrebbero saputo come passare la loro giornata (le giornate sono più lunghe alla corte che altrove), senza un buffone per farli ridere e un nano per riderne. Ma, come ho già detto, novantanove volte su cento, i buffoni son grossi, grassi e massicci, di modo che non era piccolo motivo di soddisfazione per il nostro re di possedere in Hop-Frog (così si chiamava il buffone), un triplice tesoro in una sola persona. Credo che il nome di Hop-frog non fosse quello imposto al nano dai suoi padroni all'atto del battesimo, ma che piuttosto gli fosse stato conferito all'unanimità dai sette ministri, perchè non poteva camminare come gli altri uomini. Effettivamente, Hop-Frog, non poteva muoversi che con una specie di andatura a sbalzi - qualcosa tra il salto e la giravolta - movimento che per il re era una ricreazione perpetua, e anche una gran consolazione, perchè (nonostante la pancia sporgente e un gonfiore costituzionale alla testa) agli occhi di tutta la corte il re aveva un gran bel personale. Ma quantunque Hop-Frog, a motivo delle gambe storte, non potesse muoversi che a gran fatica per la via o su un pavimento, la prodigiosa forza muscolare delle braccia che la natura, per compensare la deficienza dei suoi arti inferiori, gli aveva concesso, lo rendeva capace di atti di meravigliosa destrezza quando si trattava di arrampicarsi sugli alberi, cordami o qualunque altra cosa. In quegli esercizi, piuttosto che un ranocchio, pareva uno scoiattolo o uno scimmiotto. Di che paese fosse oriundo non so dire con precisione. Era però di qualche regione barbara, di cui nessuno aveva sentito parlare, a grande distanza dalla corte del nostro re. Hop-Frog e una giovinetta appena meno nana di lui (ma soprattutto proporzionata e ballerina eccellente) erano stati rapiti con la forza dalle loro case nelle province limitrofe e mandati in regalo al re da uno dei suoi generali favoriti dalla vittoria. Date tali circostanze non c'è dunque da stupirsi se fra i due piccoli prigionieri si stringesse una grande intimità. Ben presto divennero infatti amici per la vita. Hop-Frog, malgrado le suo buffonate, era inviso alla gente, e quindi non poteva rendersi molto utile a Trippetta; ma lei, con la sua grazia e la sua squisita bellezza di nana, era universalmente ammirata e benvoluta; aveva quindi molta influenza e non mancava mai di servirsene, in ogni occasione, per giovare all'amico. In occasione di una grande solennità - non ricordo quale - il re decise di dare un ballo in maschera; e ogni volta che aveva luogo alla corte una mascherata o altra cosa del genere, non si mancava di ricorrere al talento di Hop-Frog e Trippetta. Hop-Frog, specialmente, era così ricco d'inventiva in materia di pompa, nel suggerire tipi nuovi e nell'apparecchiare travestimenti per i balli in maschera, che pareva proprio non si potesse far niente senza di lui. Era la notte designata per la festa. Una magnifica sala era stata decorata, sotto la direzione di Trippetta, senza trascurare nessun artifizio che potesse dar lustro alla mascherata. Tutta la corte era in preda alla febbre dell'attesa. In quanto ai costumi ed ai travestimenti, come si può ben supporre, ognuno aveva già fatto la sua scelta. Molti avevano deciso fin da una settimana e anche da un mese prima riguardo ai rôles che dovevano assumersi; non c'era, insomma, più alcuna indecisione, salvo che nel caso del re e dei suoi sette ministri. Perchè indugiassero costoro non saprei dire davvero, a meno che non fosse per fare uno scherzo. Ma più probabilmente non riuscivano a decidersi a causa della loro corpulenza. Comunque, il tempo volava, e, per ultima risorsa, il re ordinò di chiamare Trippetta e Hop-Frog. Quando i due piccoli amici obbedirono all'ordine del sovrano lo trovarono a tavola, a bere vino con i sette ministri del consiglio; ma pareva di cattivo umore. Il re sapeva che a Hop-Frog non piaceva bere; infatti il bere eccitava il povero zoppo sino alla follia, e la follia non è una condizione piacevole. Ma il re amava questo genere di scherzi e se la godeva ad obbligare Hop-Frog a bere, e, come lui diceva "a sentirsi allegro". «Vieni qua, Hop-Frog» fece il monarca appena vide entrare nella stanza il buffone con la sua amica «manda giù questa coppa alla salute dei nostri amici assenti», qui Hop-Frog tirò un sospiro, «e dacci i lumi della tua immaginazione. Abbiamo bisogno di qualcosa di nuovo, di straordinario. Siamo stanchi di questa eterna monotonia. Vieni, bevi! Il vino riscalderà il tuo genio». Hop-Frog tentò, come al solito, di rispondere con una spiritosaggine alla proposta del re; ma lo sforzo fu eccessivo. Era il suo compleanno, e l'ordine di bere alla salute degli amici assenti gli fece venire le lacrime agli occhi. Grosse gocce amare caddero nella coppa che egli riceveva umilmente dalla mano del tiranno. «Ah! Ah! Ah!» ruggì quest’ultimo mentre il nano la vuotava con nausea «Guarda quello che può fare un bicchiere di vino. Ti brillano già gli occhi». Disgraziato! I suoi grandi occhi, più che brillare, scintillavano: l'effetto del vino nel suo cervello facilmente eccitabile era non meno sollecito che potente, e, posata nervosamente la coppa sulla tavola, egli svolse sugli astanti uno sguardo stravolto, da matto. Sembrava che lo scherzo del re divertisse tutti quanto mai. «E adesso al lavoro» disse il primo ministro, un uomo grassissimo. «Sì» disse il re «avanti, Hop-Frog, aiutateci! Abbiamo bisogno di nuove idee. Tutti ne abbiamo bisogno! ah! ah! ah!». E poiché questa voleva essere veramente una spiritosaggine, tutti e sette i ministri fecero eco alle risate reali. Anche Hop-Frog rise, ma d'un riso debole e distratto. «Che cerchi?» esclamò furioso il tiranno «Che fai mi tieni il broncio? Vuol dire che vuoi altro vino!» e riempito un altro grande bicchiere lo porse all'infelice che si contentò di guardarlo trattenendo il respiro. «Bevi, ti ordino!» urlò il tiranno «o per tutti i diavoli!...» ll nano esitava; il monarca diventava rosso dalla rabbia, i cortigiani ghignavano. Trippetta, pallida come una morta, avanzò fino al seggio del re, e, inginocchiandoglisi dinnanzi, lo supplicò di risparmiare il suo amico. Il tiranno la guardò per alcuni momenti, stupito di tanto ardire. Parve non sapesse che fare o dire, in quale maniera manifestare la sua indignazione. Alla fine, senza dire una parola, la respinse violentemente lanciandole in faccia il contenuto del bicchiere, che era colmo sino all'orlo. La poveretta si rialzò come meglio potè e, trattenendo il respiro, tornò al suo posto ai piedi della tavola. Per mezzo minuto regnò un silenzio di morte; si sarebbe udita cadere una piuma. Poi, d'improvviso, si udì un suono sordo, rauco e lungo, che parve scaturire da tutti gli angoli insieme della sala. «Che ti succede? Perchè fai questo rumore?» domandò il sovrano, rivolgendosi furioso al nano. Questi sembrava essersi in buona parte rimesso dalla sua ebrietà. Guardando fisso e calmo in volto il tiranno, rispose semplicemente: «Io? Io? Come potrei essere stato io?» «Il suono sembrava venire dal di fuori» osservò uno dei cortigiani «forse è il pappagallo che si arrota il becco ai ferri della gabbia». «E' vero» soggiunse il re, che parve sollevato dal suggerimento «ma in fede di cavaliere, avrei giurato che questo mariolo digrignava i denti». Il nano si mise a ridere (il re era troppo burlone per avere da obbiettare qualcosa sul riso di qualcuno) e scoprì una fila di denti, grossi, forti e disgustosi. Per di più dichiarò di essere pronto a bere quanto vino si voleva. Il re si calmo e Hop-Frog, bevuto un altro bicchiere senza notevoli inconvenienti, entrò subito e calorosamente nel tema della mascherata. «Non riesco a capire» osservò tranquillamente come se non avesse mai bevuto vino in vita sua «perchè mi sia venuta quest'associazione di idee, ma ecco... appena la maestà vostra ebbe colpita la piccola e le ebbe gettato il vino sul viso, voglio dire nel momento preciso in cui il pappagallo faceva quello strano rumore fuori della finestra, mi si è presentato alla mente il ricordo di un magnifico divertimento, un gioco che si fa al mio paese durante le mascherate; ma che qui riuscirà assolutamente nuovo. Purtroppo però necessita una compagnia di otto persone e…». «Eccoci!» esclamò il re ridendo della sua sottile scoperta. «Otto per l'appunto, io e i miei ministri. Ebbene, cos'è questo divertimento?» «Noi lo chiamiamo» rispose il nano «gli "Otto Orang-Utang incatenati" ed è proprio un bel gioco quando riesce fatto bene» «Lo faremo noi» disse il re mettendo fuori il petto e abbassando le palpebre. «La bellezza del gioco» continuò Hop-Frog «consiste nello spavento che mette alle signore» «Benissimo!» urlarono in coro il sovrano e il suo ministero. «Io vi vestirò da orang-utang» continuò il nano, «fidatevi completamente di me. La somiglianza sarà tale, che tutte le maschere vi crederanno veri animali, e naturalmente il loro spavento sarà pari alla meraviglia» «Ah! che bello!» esclamò il re «Hop-Frog, farò di te un uomo». «Le catene servono ad aumentare la confusione e il rumore. Si suppone che siate fuggiti in massa da un serraglio. La Maestà Vostra non si può figurare l'effetto prodotto in un ballo in maschera dall'apparizione di otto orang-utang incatenati che, presi da quasi tutti i presenti per bestie vere, si precipitano con urla selvaggie attraverso una folla di cavalieri e dame vestiti con eleganza e ricchezza. Il contrasto è inimitabile» «Per forza» disse il re, e la seduta si sciolse in fretta (poiché era già tardi) per mettere in esecuzione il piano di Hop-Frog. Il suo modo di travestire gli otto personaggi da orang-utang fu semplicissimo, ma rispondente agli scopi che egli si prefiggeva. All'epoca del mio racconto, animali di questa specie se n'erano veduti di rado nel mondo civile; e poiché le imitazioni fatte dal nano riuscirono sufficientemente bestiali e più orribili del necessario, la loro somiglianza col vero fu ritenuta sufficiente. Il re e i suoi ministri indossarono prima di tutto camicie e calzoni di maglia aderenti, questi vennero quindi cosparsi di catrame. Uno dei ministri suggerì allora di coprirsi di piume: ma il nano rigettò subito l'idea e non fu difficile convincere gli otto personaggi con una dimostrazione oculare che il pelo dell'orang-utang riusciva meglio rappresentato col lino. Si prese dunque del lino e se cosparse, per uno spesso strato, il catrame. Procurata poi una lunga catena la si passò dapprima intorno alla vita del re, poi intorno alla vita di un secondo personaggio e via di seguito per tutti gli altri, fino all'ultimo. Incatenati che furono gli otto personaggi si allontanarono per quanto era possibile l'uno dall'altro, in modo da formare un circolo; e per rendere il gioco più verosimile Hop-Frog fece passare il rimanente della catena attraverso il circolo in due diametri ad angolo retto, secondo il metodo adottato nel Borneo da coloro che catturano scimpanzè ed altre grosse scimmie. L'enorme sala dove stava per aver luogo il ballo era rotonda, molto alta, e riceveva la luce del giorno da una sola finestra praticata nel soffitto. La notte (questa sala era stata costruita appunto per la notte) veniva illuminata principalmente da una lumiera che, sospesa con una catena al centro del soffitto, si alzava e abbassava mediante il solito contrappeso il quale però, per motivi di estetica, passava fuori la cupola e, di là, al tetto. L'addobbo della sala era stato affidato alla direzione di Trippetta; ma sembra che in qualche particolare essa si fosse lasciata guidare dal giudizio più posato del suo amico, il nano. Fu dietro suggerimento di quest'ultimo che, per quella occasione, venne tolta la lumiera. Le colature della cera (che si sarebbe inevitabilmente sciolta nella calda atmosfera del ballo) avrebbero gravemente danneggiato i ricchi costumi degli invitati, parte dei quali, essendo la sala affollata, non avrebbero potuto evitare di trattenersi al centro, cioè sotto il lampadario. Vennero installati altri candelabri in vari punti della sala, fuori dal passaggio, e una torcia che emanava un soave profumo fu collocata nella destra di ognuna delle cariatidi che stavano a ridosso delle pareti, cinquanta o sessanta in tutto. Gli otto orang-utang, prendendo consiglio da Hop-Frog, aspettarono pazientemente che la sala, con la mezzanotte, fosse completamente piena di maschere, per fare il loro ingresso. Quando l'orologio ebbe finito di suonare l'ultimo tocco, essi si precipitarono, o piuttosto rotolarono nella sala, perchè l'impaccio delle catene li fece tutti inciampare ed i più cadere nel mentre varcavano la soglia. La sensazione fra le maschere fu prodigiosa e tale da riempire di gioia il cuore del re. Come supposto, non furono pochi tra gli invitati a prendere questi esseri di così feroce aspetto per bestie vere. Molte donne svennero dallo spavento e se il re non avesse avuto la precauzione di proibire tutte le armi, lui e la sua banda avrebbero potuto pagare col sangue lo scherzo. Insomma fu una corsa, un fuggi-fuggi generale verso le porte: ma il re aveva dato ordine di chiuderle subito dopo il suo ingresso e, secondo il suggerimento del nano, le chiavi erano state consegnate a questi. Quando il tumulto fu giunto al culmine, mentre ogni maschera non pensava che alla propria salvezza (e un pericolo era costituito dal premere della folla eccitata) si potè vedere la catena che serviva a tener sospeso il lampadario, e che era stata ritirata anch'essa, discendere gradatamente finché la sua estremità, ricurva ad uncino, non fu arrivata a tre piedi dal suolo. Poco dopo, il re e i suoi sette amici, avendo scorazzato in tutte le direzioni per la sala, si trovarono finalmente al centro e di conseguenza in contatto immediato con la catena. Allora il nano, il quale era stato sempre loro dietro, incitandoli a mantenere viva la confusione, afferrò la catena delle scimmie al punto d'incrocio delle due parti che tagliavano il circolo diametralmente ad angolo retto e, con la rapidità del pensiero, vi infilò l'uncino che serviva di solito a sostenere il lampadario. In un istante, tirata da un agente invisibile, la catena del lampadario risalì abbastanza in alto per mettere l'uncino fuori portata e naturalmente tirò gli orang-utang tutti insieme gli uni, faccia a faccia, contro gli altri. Intanto le maschere s'erano andate rimettendo dalla paura e, incominciando a prendere la cosa per uno scherzo abilmente preparato, diedero in un grande scoppio di riso nel vedere la brutta posizione delle scimmie. «Lasciateli a me!» gridò allora Hop-Frog, e la sua voce stridula dominava il tumulto, «Lasciate li a me, credo di conoscerli. Se soltanto riuscissi a guardarli bene da vicino, vi saprò subito dire chi sono!» E aiutandosi con le mani e coi piedi, egli si trascinò fino ad una parete e afferrata una fiaccola da una cariatide, ritornò allo stesso modo al centro della sala; saltò con l'agilità di una scimmia sul capo del re, di lì si arrampicò qualche piede su per la catena, e abbassata la torcia ad esaminare il gruppo di orang-utang, seguitava a gridare: «Saprò ben presto dirvi chi sono!» D'improvviso allora, mentre tutti gli astanti (le scimmie comprese) si tenevano i fianchi dal ridere, il buffone mandò un fischio acuto; la catena si alzò rapidamente d'una trentina di piedi, traendo con sé gli orang-utang spaventati, che si dibattevano, e lasciandoli così sospesi per aria, a metà strada fra il pavimento e il soffitto. Hop-Frog, aggrappato alla catena, conservava la sua distanza dalle otto maschere e continuava ad abbassare su di loro la torcia, come per cercare di vedere chi erano. Tanto fu lo stupore della folla a questa ascensione, che si produsse un silenzio mortale della durata di circa un minuto. Il silenzio venne poi rotto da un suono sordo, rauco, stridente, esattamente simile a quello che aveva attirato l'attenzione del re e dei suoi consiglieri quando fu gettato il vino in faccia a Trippetta. Ma ora non era necessario cercare da dove quel suono partisse: usciva dalle zanne del buffone che le stringeva e digrignava nella bocca schiumante mentre con gli occhi accesi di una rabbia folle fissava le facce rivolte in su del re e dei suoi sette compagni. «Ah, ah!» esclamò alla fine il buffone infuriato. «Ah, ah! Incomincio a capire chi è questa gente!» E col pretesto di esaminare il re più da vicino, toccò con la torcia il lino che lo ricopriva e che d'un tratto fu tutto una fiamma. In meno di mezzo minuto gli otto scimmioni vennero avvolti dalle fiamme furiose, tra le grida della folla che li guardava di sotto inorridita e impotente a dar loro il minimo aiuto. Alzatesi poi ancora le fiamme con crescente violenza, il buffone fu obbligato ad arrampicarsi più in alto sulla catena, fuori dalla loro portata; e mentre faceva questo movimento, la folla ricadeva un attimo nel silenzio. Il nano colse l'occasione per parlare. «Ora capisco chiaramente», disse, «che razza di gente sono queste maschere! Si tratta di un grande re e dei suoi sette consiglieri privati, un re che non si fa scrupolo di schiaffeggiare una ragazza indifesa, e i suoi sette consiglieri che lo incitano all'oltraggio. In quanto a me, non sono che
Hop-Frog, il buffone, e questa è la mia ultima buffonata». Il nano aveva appena terminato il suo breve discorso che la vendetta, grazie alla gran combustibilità del lino e del catrame al quale questo aderiva, era compiuta. Gli otto cadaveri dondolavano dalla catena, in una orribile massa confusa, fetida e nera. Il nano scaraventò loro addosso la torcia, si arrampicò pian piano sino al soffitto e disparve attraverso il lucernario. Si suppone che Trippetta, di guardia sul tetto della sala, sia stata complice del nano nella sua selvaggia vendetta e che in seguito siano entrambi fuggiti al loro paese, poiché non furono mai più veduti.